Placebo, effetto placebo ed effetto nocebo sono termini ormai entrati nel linguaggio comune, spesso con connotazioni negative e in ogni caso riduzionistiche, mentre sottendono fenomeni complessi e allo stesso tempo affascinanti. Più ci si avvicina al “fenomeno placebo” e più l’iniziale banalità con cui si è soliti parlarne, scompare, lasciando il posto alla sua complessità e alla sua enorme potenzialità.
Ricostruendo la storia della medicina dall'antico Egitto (ma anche prima) attraverso le innumerevoli civiltà che si sono susseguite, non possiamo far altro che constatare che le pratiche e le arti mediche del passato altro non erano che effetti placebo. Ma cosa è rimasto di quei tempi?
La relazione medico-paziente può essere vista come un prodotto dell’evoluzione (Benedetti, 2013) e l’evoluzione dell’effetto placebo può aver contribuito all’emergere del ruolo del guaritore (medico) e della sua “arte medica”, sottolineando l’efficacia e il potere dell’incontro quale dimensione di guarigione (Miller et al., 2009).
Essere un paziente è una situazione tipica in tutte le culture e in tutte le medicine, siano esse tradizionali o convenzionali e implica diversi passaggi, fra di loro comuni e trasversali; Essere un paziente significa cioè stare male in generale (fisicamente e mentalmente) e cercare in tutti i modi possibili di guarire o alleviare il malessere.
Quando e come è nata la prima relazione fra medico e paziente? Ovviamente non ci è dato saperlo anche se si possono fare diverse speculazioni. Come suppone Benedetti (2013) il comportamento prosociale dei primi ominidi si può essere evoluto in svariati modi e uno di questi è stato la cura dei propri simili particolarmente bisognosi di aiuto e di cure. Benedetti cita infatti alcuni esempi di compassione e accudimento, risalenti alla preistoria, in cui ci sono tracce di aiuto reciproco in situazioni di salute critica. Nonostante nei primi ominidi questi gesti altruistici vengono adottati da diversi membri appartenenti alla comunità, l’autore suppone che nel corso dell’evoluzione una sola figura si sia lentamente specializzata nella cura delle sofferenze sia fisiche che mentali, diventando il punto di riferimento della comunità. Questa figura, inizialmente lo sciamano, rappresenta probabilmente il primo modello di medico. Gli ammalati si fidano di lui e dei suoi rimedi e grazie a questa fiducia, il suo ruolo, nella società, cresce sempre più di importanza fino a divenire una figura di riferimento in tutte le culture.
Con il passare dei secoli e delle scoperte scientifiche il suo ruolo si trasforma e lascia il posto al medico moderno, almeno nella società occidentale. Come suggerisce Benedetti (2013), nonostante l’avanzamento nelle scoperte scientifiche e l’avvento di nuove e sempre più sofisticate tecniche mediche, l’incontro terapeutico rimane comunque inalterato nel suo significato più profondo, indipendentemente dall’efficacia o meno della terapia; in altre parole la relazione paziente-terapeuta fornisce da sempre un luogo protetto in cui la persona sofferente incontra chi è in grado di alleviare il suo malessere.
La relazione medico - paziente è al centro di quel complesso contesto psicosociale che porta allo sviluppo di risposte placebo; infatti quasi ogni elemento del contesto della cura e del rituale terapeutico passa attraverso la figura del terapeuta. Le sue parole e i suoi atteggiamenti, l’ambiente in cui opera, i macchinari e gli strumenti che usa, le medicine che somministra sono i suoi strumenti principali e sono fondamentali per il risultato della cura.
La relazione medico-paziente si può suddividere teoricamente in quattro fasi; una prima fase, nella quale una persona si sente male e si identifica come paziente, in quanto sofferente e bisognosa di aiuto; una seconda fase, in cui va alla ricerca di aiuto e di conforto per sopprimere il suo malessere; una terza e importantissima fase in cui incontra il dottore, che rappresenta il mezzo per alleviare il suo dolore; una quarta ed ultima fase, in cui viene curato e riceve una terapia (Benedetti, 2013).
La prima fase è il “sentirsi male”; in questa fase il paziente si sente malato e questa sensazione è una combinazione di diversi eventi. Il primo evento è rappresentato dalla consapevolezza della sua sofferenza, sia fisica, dovuta ad una lesione o al malfunzionamento di una parte del corpo, che mentale, causata dalla consapevolezza che qualcosa nel proprio corpo sta cambiando in negativo (Benedetti, 2013).
Il secondo evento che modula la percezione del “sentirsi ammalato” è invece relativo ai diversi e innumerevoli fattori psicosociali che modulano la percezione del malessere. In altre parole, esiste una esperienza sensoriale comune a tutti che dà origine al malessere o al dolore, che parte dalla periferia del corpo e arriva al sistema nervoso centrale (bottom up) e, simultaneamente, esiste una modulazione discendente del sintomo, determinata da fattori psicologici e sociali (top down) come ad esempio il significato che viene attribuito al dolore nelle varie culture e anche nelle diverse fasi della vita, così come esiste una grande variabilità anche nei singoli pazienti, che rispecchia la varietà e la differenza dei contesti che circondano i malati. In questa prima fase quindi, il paziente si rende consapevole che, indipendentemente dalla tipologia del dolore che si trova ad affrontare, l’elemento cruciale è la sua percezione di malessere.
Questa percezione cosciente è ciò che spinge il paziente verso la seconda fase della relazione, secondo la prospettiva di Benedetti (2012).
Questa seconda fase rappresenta, da un punto di vista evolutivo, un tipo di comportamento finalizzato, simile a quello che accade quando si vuole placare il disagio derivante dalla fame e dalla sete, e, come dice Benedetti (2013), in ambito fisiologico, i meccanismi della ricompensa giocano un ruolo fondamentale. In questa seconda fase, il paziente che si “sente malato”, inizia a cercare sollievo come quando è affamato e assetato e mette in atto i repertori comportamentali finalizzati alla soppressione del disagio in conformità con il contesto nel quale vive, rivolgendosi al suo medico o al suo “sciamano”; in altre parole il comportamento che il paziente adotta nel cercare di alleviare la sua sofferenza si basa principalmente sulle sue credenze, sulle sue aspettative e sulla sua cultura, così che alcuni pazienti si rivolgono alla medicina convenzionale ed altri invece alle pratiche tradizionali.
Nella terza fase della relazione medico-paziente, il paziente finalmente “incontra il terapeuta”, ed è qui che avviene l’incontro con una figura autorevole e protettiva che promuove fiducia speranza, ed aspettativa di guarigione e di sollievo dalla sofferenza (Miller et al., 2009).
È in questo incontro infatti che in base alle parole, agli atteggiamenti e ai comportamenti del terapeuta, si attivano dei particolari meccanismi nella mente del paziente, come ad esempio la fiducia e la speranza, che conducono alle aspettative e alle credenze che si è visto essere alla base dei meccanismi placebo (Benedetti, 2013); nello stesso modo anche diversi meccanismi sono presenti nel cervello del terapeuta, come ad esempio l’empatia e la compassione.
La fiducia dei pazienti è un costrutto molto complesso e multidimensionale che è stato descritto in maniera differente a seconda delle discipline accademiche che l’hanno analizzato, (Pearson e Raeke, 2000), tuttavia nel campo medico ci sono stati diversi approcci alla definizione della fiducia nella relazione paziente-terapeuta. Alcuni teorici considerano la fiducia del paziente come l’insieme delle credenze o delle aspettative che il terapeuta si comporterà in un certo modo, mentre altri hanno sottolineato una connotazione più affettiva della fiducia, identificandola come una sensazione rassicurante nei confronti del medico e delle sue buone intenzioni (Pearson e Raeke, 2000).
Tra i comportamenti del medico, più comunemente descritti e su cui i pazienti basano la loro fiducia risultano esserci la competenza e la comunicazione, la compassione, la confidenza e la credibilità; inoltre la fiducia nel proprio terapeuta è stata da sempre considerata un elemento fondamentale che può avere un effetto tangibile sul risultato della cura (Pearson e Raeke, 2000).
Un altro aspetto molto importante dell’interazione fra paziente e terapeuta è la speranza. La sua definizione è tutt’altro che semplice visto che una recente metanalisi ha individuato circa 49 diverse definizioni (Schrank et al.,2008) fra le quali ad esempio quelle che la vedono come un fenomeno positivo che appartiene ai singoli individui, uno stato della mente, un potere interno, un’energia, uno stato emotivo motivazionale interno, una credenza o un’emozione positiva; essenzialmente si riconosce all’interno di questi costrutti uno stato motivazionale positivo che si basa su una percezione di energia positiva orientata all’ottenimento di un obiettivo e alla pianificazione di come raggiungerlo (Benedetti, 2012). Nonostante la speranza esprima una moltitudine di concetti, si possono comunque identificare secondo Benedetti (2012) almeno due fattori fondamentali che la caratterizzano: l’aspettativa e la motivazione, tale per cui il paziente ha la speranza di un futuro migliore e mette in atto tutti i repertori comportamentali conosciuti per raggiungere quell’obiettivo.
Nello stesso modo in cui la fiducia e la speranza operano dei cambiamenti nel cervello del paziente, anche nel medico avvengono degli eventi mentali complessi durante l’incontro con il paziente. Osservati da una prospettiva evolutiva, l’altruismo, l’empatia e la compassione si sono evoluti nel corso dei secoli per facilitare le relazioni sociali e la sopravvivenza della specie; in particolare l’empatia e la compassione sono alla base della relazione fra il paziente e il medico e sono elicitate attraverso le manifestazioni di sofferenza e afflizione che il paziente mostra. L’empatia è considerata come la capacità di condividere lo stato emotivo dell’altro e di coglierne i pensieri, adottandone lo stesso punto di vista. Come sottolineano Rogers e Kinget (Marmocchi et al., 2004) l’empatia è la capacità del terapeuta di immergersi nel mondo del paziente e di partecipare alla sua esperienza “come se” quella fosse la propria, ma senza mai abbandonare la qualità del “come se”, ovvero senza aggiungere il proprio stato d’animo. In altre parole l’empatia è un processo nel quale le esperienze cognitive ed emotive del paziente vengono condivise, senza però sentirne il peso emotivo “come se” fosse il proprio (Marmocchi et al., 2004). Un altro fattore fondante della relazione medico-paziente e affine all’empatia, è la compassione, che come sostiene Benedetti (2012) è uno stato mentale che può essere sollecitato davanti a situazioni di sofferenza fisica o psicologica, e che muove una reazione nel medico verso il conforto e l’aiuto.
Durante questa terza fase della relazione medico-paziente, un altro importante fattore che gioca un ruolo cruciale è la comunicazione verbale e quella non verbale. Le parole, le affermazioni che il terapeuta pronuncia hanno un profondo impatto nel produrre differenti effetti sul risultato finale. Come infatti visto nei precedenti capitoli, dire ad un paziente che la cura forse funziona o dire che la cura è molto potente produce differenti esiti (Benedetti, 2002). Nello stesso modo anche la comunicazione non verbale può modulare il rapporto fra il medico e il paziente; infatti le espressioni facciali di entrambi, gli sguardi, i gesti sono tutti messaggi consci ed inconsci che generano aspettative e risposte comportamentali (Benedetti, 2013).
Nella a quarta ed ultima fase della relazione medico-paziente, avviene la somministrazione della terapia. In questa fase, probabilmente la più importante nella relazione fra chi soffre e chi allevia la sofferenza, si svolge il rituale dell’atto terapeutico, ovvero la somministrazione della cura, in cui viene somministrato il farmaco insieme a tutti quegli stimoli psicologici, sociali, simbolici che contribuiscono al miglioramento o al peggioramento del sintomo e rappresentano l’effetto placebo.
Ecco perché alcuni autori propongono di ridefinire l’effetto placebo come “guarigione contestuale”, in quanto prodotta dal contesto di cura che circonda il paziente e dall’ interazione fra il paziente e il terapeuta, nonché dai riti e dai simboli che li circondano (Miller et al., 2008).
In altre parole, la sola interazione fra medico e paziente può risultare terapeutica, in quanto elemento centrale di quel contesto, potente ed evocativo, che comunica al paziente direttamente ed indirettamente che presto troverà sollievo.
Bibliografia
Benedetti, F. (2002). How the doctor's words affect the patient's brain. Evaluation & the Health Professions, 25(4), 369-386.
Benedetti, F. (2012), L’effetto placebo. Breve viaggio tra mente e corpo. Roma, Carrocci Ed.
Benedetti, F. (2013). Placebo and the new physiology of the doctor-patient relationship. Physiological Reviews, 93(3), 1207-1246.
Marmocchi, P., Dall’Aglio, C., Zannini, M. (2004). Educare le life skills. Come promuovere le abilità psico-sociali e affettive secondo L’Organizzazione Mondiale della Sanità. (Trento). Edizioni centro studi Erickson
Miller, F. G., Colloca, L., & Kaptchuk, T. J. (2009). The placebo effect: Illness and interpersonal healing. Perspectives in Biology and Medicine, 52(4), 518-539.
Pearson, S.D., & Raeke, L. H., (2000). Patients' trust in physicians: Many theories, few measures, and little data. Journal of General Internal Medicine, 15(7), 509-13.
Schrank, B., Stanghellini, G., & Slade, M. (2008). Hope in psychiatry: A review of the literature. Acta Psychiatrica Scandinavica, 118(6), 421-433.
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